Quando si pensa ad una persona affetta da dipendenza, nell’archetipo collettivo il rimando è spesso riconducibile a quanto letteratura e cinema ci hanno immancabilmente indotto ad immaginare. Film come Trainspotting di Danny Boyle hanno tratteggiato le subculture negli anni ’90 e duemila, dipingendo scenari di degrado sociale e devianza, in cui, il (tossico)dipendente è un irriducibile decontestualizzato sociale privo di speranze e fatalmente destinato alla sua autodistruzione. Tutto questo, ha condotto ad un processo di natura ontologizzante che ha finito per rappresentare chi possiede una dipendenza, come un reietto irrecuperabile di fronte al quale inclinare buonisticamente lo sguardo e proseguire disgustati per strada. Tuttavia, ognuno di noi, nel corso della sua vita, si trova a fronteggiare con delle dipendenze. Abitudini piacevoli che poi si ritualizzano e ci rendono complici del loro autoalimentarsi. Il rito del caffè, l’abitudine della lettura del giornale, l’accudimento del cane o gli infiniti messaggi che l’adolescente scrive all’amico del cuore. Coperte di Linus le cui peculiarità consistono, da un lato, nella loro transitorietà, perché molto spesso le abbandoniamo spontaneamente nel corso del tempo, dall’altro nel poter essere oggetto di rinuncia, pur con fatica, a fronte di impedimenti sopravvenuti o dell’evidenziarsi di conseguenze negative e non desiderate. Tali abitudini, fortemente connaturate e a cui è difficile rinunciare (impropriamente dette, nel linguaggio quotidiano, “dipendenze”), connotano l’esistenza delle persone umane su un ampio spettro di comportamenti. Possono portare a conseguenze dannose ma, nel momento in cui si prende atto che gli effetti non desiderati prevalgono sui vantaggi attesi, esse consentono alle persone di fruire della propria capacità di autocontrollo e di orientare diversamente il proprio comportamento e le scelte che lo guidano. Il fattore che segna il confine tra un’abitudine (anche con qualità di “abuso”) e una dipendenza patologica è la capacità di rinunciare a un comportamento gratificante, che fornisce inequivocabili vantaggi e che si pone, a un certo punto della sua traiettoria, come costitutivo degli equilibri stessi della persona. Ciò che fa la differenza è la capacità di limitare, di saper differire nel tempo e di contenere “l’invadenza” di un piacere al quale una consolidata e assai confortevole consuetudine tiene fortemente legati (Grosso & Rascazzo, 2014)
 
L’intossicazione da sostanza (da qualunque oggetto di dipendenza, in realtà) che si traduce in un’ampia gamma di comportamenti di dipendenza, trasforma gli individui e ne muta le soggettività. La persona va incontro a una metamorfosi, profonda o lieve, ma in realtà sempre assai rivelante o addirittura drammatica; rapida o lenta, ma sempre duratura e persistente, che modifica lo stato del sé, l’umore di base; attiva e calma, che consente di sperimentare sensazioni forti come l’ottundimento delle emozioni, soprattutto se spiacevoli (ibidem). La dipendenza patologica è caratterizzata da peculiari manifestazioni globali, allo stesso tempo psichiche, fisiche, comportamentali, di cui cogliamo i differenti sintomi sia direttamente, visibilmente, sia con indagini e strumenti appropriati. Essa è evidenziata dalla presenza di una sintomatologia fisica e psichica, che assume caratteristiche e intensità differenti, in base alla tossicità delle diverse sostanze e al coinvolgimento in un determinato comportamento, ma anche secondo le diversità di ogni soggetto umano e le varietà delle reazioni del contesto ambientale. La frequente assunzione di alcune sostanze psicoattive (alcol, eroina e cocaina su tutte), provoca progressiva assuefazione e una maggiore tolleranza dell’organismo che man mano si adatta alle nuove e continue stimolazioni. La conseguenza è la riduzione della sensazione degli effetti più piacevoli per via della continua ripetizione del consumo, effetti che a loro volta possono essere nuovamente ottenuti, solo con l’aumento delle dosi assunte e dalla frequenza delle assunzioni: la tolleranza appunto. La dipendenza patologica si manifesta, anche e soprattutto, con la sindrome di astinenza, allorché non si rende più possibile la ripetizione del comportamento di assunzione. Essa comporta un’evidente sofferenza sia sul piano fisico come dolore dei muscoli e delle articolazioni, crampi, brividi, nausea vomito, diarrea, rinorrea, insonnia, sia mentale con ansia, paura, agitazione etc. (Consoli & Frossi, 2014).
La sindrome d’astinenza coinvolge, in un rapporto sempre estremamente complesso e personale, il craving (dall’inglese to crave for, desiderare qualcosa ardentemente): un desiderio molto intenso, spesso irrefrenabile, considerato il motore somatopsichico del comportamento di dipendenza. Il craving riassume in sé i due concetti di dipendenza fisica e dipendenza psicologica. La misurazione della sua intensità e il fatto che la persona riesca o meno a gestire l’impellente desiderio del consumo, è oggi ritenuto un indicatore della gravità dell’addiction (in inglese dipendenza patologica). Il craving è, da un lato, riconducibile a un bisogno fisico, perché l’imperiosità della sensazione percepita e tale da richiedere immediata soddisfazione, non diversamente dalla fame e dalla sete. Dall’altro, esso si connota anche come un costrutto psicologico-comportamentale che, quando rimane al di sotto di una certa soglia, è catalizzatore di un comportamento fisiologico comune a tutti gli esseri umani che sentono una spiccata attrazione verso qualcosa (Consoli & Frossi, 2014). Diventando invece patologico, a seguito della reiterazione progressiva del comportamento di soddisfazione del desiderio, il craving determina significative alterazioni di molteplici meccanismi neurochimici, che stimolano direttamente le funzioni celebrali e danno luogo a una precipitazione del pensiero, che si coagula intorno a un’unica idea, sempre più invasiva e totalizzante e che a sua volta spinge, in maniera sempre più irrefrenabile, alla soddisfazione del desiderio rappresentato (ibidem). È questo il meccanismo che riattiva le ricadute e il comportamento di recidiva anche a distanza di tempo. Il carving è riattivabile a fronte di una varia serie di stimoli associativi, che rimandano nella memoria inconsapevole del soggetto. Le associazioni in grado di riaccendere il desiderio compulsivo possono essere visive, olfattive e tattili-coinvolgono tutti i cinque sensi anche a distanza di anni dalla cessazione del comportamento dipendente.
Il primo movente che conduce a ripetere l’esperienza dell’utilizzo di una sostanza psicotropa è la sensazione di piacere e di benessere. In principio, al momento dell’iniziazione al consumo, la dimensione del piacere non è scontata. Si deve a Becker in Come si diventa fumatori di marijuana (Becker, 1963) la descrizione dettagliata dell’apprendimento in tre atti proprio della scena iniziatoria: a) imparare una tecnica; b) percepire gli effetti; c) definire gli effetti percepiti come piacevoli. Inoltre, se c’è un apprendimento ciò significa che ci sono anche dei maestri (il gruppo dei pari), i quali svolgono un ruolo rassicurante e di accompagnamento nell’individuazione del piacere specifico. La sensazione di piacere è il primo e importante effetto che si comincia ad apprezzare nel consumo. Non è però l’unico. Il beneficio è più complessivo per la persona e fornisce altre remunerazioni. Se per la cannabis, ad esempio, uno degli effetti iniziali è sentirsi più spensierati, “leggeri” e star bene con i compagni, in seguito per alcuni, ossia per coloro che svilupperanno un’abitudine individuale, il beneficio percepito potrà prendere le forme del sollievo, del rilassamento, del contenimento dell’aggressività etc. Ogni sostanza comporta remunerazioni differenti, principali e secondarie, che si declinano secondo le caratteristiche della persona (ibidem).
 
Il termine drug per gli anglosassoni significa sia farmaco sia droga e il termine ne riassume tutta l’ambivalenza: cura, ma ammala e il rimedio, come l’abuso, è rimandato al discernimento di chi l’utilizza (Grosso & Rascazzo, 2014). L’oggetto della dipendenza può riempire il vuoto che appare dove prima c’era pienezza di vita; può dare restituire potere alla persona in forma ricattatoria, come anche toglierlo, lasciandola priva di ogni considerazione. Può esaltare un’immagine e un’impressione di sé, come lasciarla in preda al proprio disprezzo. Può mettere in forma, migliorare le prestazioni rendendo più pronti ed efficaci, come rallentare in forma, migliorare le prestazioni rendendo più pronti ed efficaci, come rallentare pensieri e movimenti; può rendere fluida la comunicazione, facilitare l’intimità come portare all’isolamento o consentire di rinchiudersi piacevolmente in sé stessi. Può dare coraggio, fare sentire forti, spavaldi e sicuri di sé, come scatenare vere e proprie crisi di panico; può suscitare violenza come contenere l’aggressività; può non far sentire la fatica, tollerare maggiormente gli sforzi, come rendere inerti e spossati, senza forza ed energia; può prolungare il piacere sessuale, potenziarne l’immaginario, come renderlo superfluo o impoverirlo; può soccorrere l’eiaculazione precoce, come rendere problematica l’erezione. Può attivare le persone in un progetto, in un compito, come demotivarle e renderle abuliche; può creare un corpo da “palestrato” o far raggiungere in breve tempo la snellezza di un’indossatrice, come renderci dei palloni gonfiati o far perdere il ciclo mestruale. Può, insomma, far sentire felici, oppure in balia di una profonda tristezza (ibidem).
 
Forse nell’interpretazione più tradizionale della dipendenza, c’è quella che la definisce come vizio. I termini utilizzati, leggibili nelle pubblicazioni d’antan, ben esplicitano il fondamento di tale concezione, tutt’ora valida in culture della popolazione e che sarebbe riduttivo definire residuale o di nicchia. Il «vizio del bere» porta le persone all’alcoldipendenza e il «vizio del gioco d’azzardo» ne porta altre alla rovina. Al centro c’è la persona “dissipata”, che non ha il controllo di sé e delle proprie azioni, che si lascia trascinare dalle parti più “basse” ed è in preda ai propri “istinti”, che è «causa del suo mal» e della rovina della sua vita. Poiché la responsabilità è tutta imputata al soggetto, gli “altri” e la società non sono tenuti a occuparsene, se non per proteggersi dalle conseguenze negative (Becker & , 1997). Ulteriore rinforzo dell’interpretazione della dipendenza come vizio avviene con la concettualizzazione della deviazione sociale. L’assunzione eccessiva di alcol e droghe porta alla perdita di controllo, sia per gli effetti della sostanza, sia perché il vizio diviene “padrone della vita” e mantenerlo conduce ad attività illecite e criminali. Chi «si lascia prendere» dal vizio dell’alcol, dell’azzardo o delle droghe è già «degenerato» in precedenza, come dimostrano i comportamenti “biasimevoli” di chi «lo conosce da vicino». L’esito di chi trasgredisce l’ordine sociale e «dissipa una vita nel vizio» è il carcere o l’ospedale psichiatrico, come avveniva in Italia prima della legge 685 del 1965 (Olievenstain, 1984). La dipendenza patologica si configura su un versante come una malattia della volontà o, in termini più aggiornati, come una malattia della motivazione. Sull’altro lato della medaglia si impone invece come malattia del desiderio, della prepotenza del desiderio e della sua metamorfosi in bisogno primario. Nel momento in cui la malattia è conclamata, la responsabilità e l’imputazione di responsabilità, che rappresentano un punto cruciale nella dinamica sociale, nella stigmatizzazione dei comportamenti e nei meccanismi relazionali d’inclusione-esclusione, emigrano ed escono, almeno in buona parte, dal dominio del soggetto e vengono ricondotte al sistema delle cure. La responsabilità della persona dipendente si trasforma in responsabilità della cura all’interno dei canoni del rapporto tra paziente e medico, nella transazione tra malato ed equipe curante. La responsabilità della cura è una responsabilità condivisa, e tale la definisce la prima vera legge italiana sulle tossicodipendenze, la 685 del 1975. Una legge che, assumendo la dipendenza come malattia, stabilisce per la prima volta i presidi sociosanitari, successivamente definiti Ser.T (servizi per le tossicodipendenze) oggi riconvertiti all’acronimo Ser.D. che ha visto la sostituzione dell’ultima parola in dipendenze (Grosso & Rascazzo, 2014).
 
Quando invece si parla di cause della dipendenza, centrale assume il ruolo della società.  La ricerca e il dibattito scientifico hanno messo progressivamente in evidenza alcuni aspetti della complessa problematica della dipendenza, in cui si intersecano una quantità enorme di osservazioni da parte di molte discipline (dalle diverse branche della medicina, della psicologia e della sociologia, all’antropologia, alla filosofia, alla morale e all’economia etc.). Tuttavia, nonostante gli indubbi avanzamenti, non si possiedono ancora conclusioni definitive, né tantomeno l’indicazione di soluzioni certe. Dall’attribuzione della responsabilità del comportamento alla sola persona, l’accento si è certamente spostato sui meccanismi, in parte sovra determinati, che regolano e governano il rapporto di dipendenza da un oggetto di piacere diventato totalizzante. Inoltre, si è reso evidente il ruolo svolto dal contesto sociale (familiare e culturale) nel dare origine e perpetuare uno stato di dipendenza. Ne è scaturita una molteplicità di suggerimenti che, proprio per la varietà degli sguardi e degli approcci, possono apparire anche a volte contraddittori, se non valutati nella complessità del loro insieme e nelle loro interazioni (Consoli & Frossi, 2014).
«Tra “vizio” e malattia”, i due vasi di ferro in cui è “contenuta” la dipendenza, c’è un vaso di coccio che interpreta la dipendenza come espressione di un non risolto e allo stesso tempo non ben definito disagio» (Grosso & Rascazzo, 2014). Il disagio si configura come un’inquietudine e una difficoltà, personale e sociale, un mal di vivere che si ricollega al malessere esistenziale e che trova nell’uso di sostanze un sollievo, un rimedio provvisorio, talvolta una protesi per l’adattamento sociale. La dipendenza, allora, né come vizio né come malattia, si configura invece come fenomeno sociale che esprime un disordine. Tale fenomeno è il riflesso e la spia di un più ampio «disagio della civiltà», che riguarda l’ordine economico e il suo disordine (il narcotraffico, ma anche le enormi disuguaglianze), i processi di produzione e consumo, alcune derive culturali che le accompagnano come ad esempio il consumismo, l’individualismo competitivo o il narcisismo, gli assetti organizzativi che ne conseguono in termini di richieste di adattamento sociale e discipline di vita a cui la farmacologia legale e il mercato illegale di ogni tipo di sostanza vengono in soccorso. Lo sguardo dell’analisi sociale prescinde dal singolo individuo, come da ogni particolare prodotto naturale o di sintesi, non tiene volutamente conto delle fragilità delle diverse persone o dei differenti poteri di «uncinamento» (ibidem) dei vari stupefacenti, né degli specifici microcontesti socioculturali, che creano le condizioni d’uso o di dipendenza in ogni determinata situazione. Nello sguardo più ad ampio raggio della lettura sociologia si coglie un nesso tra società e dipendenza, che invita a cercare gli input patogeni che conducono alle dipendenze nei mutamenti sociali, nelle trasformazioni del nostro tempo, nell’organizzazione e nei tempi di vita di ciascuno, nei diktat culturali trasformati in vissuti di rigide e richiedenti aspettative personali.