In questo scritto si delineerà il percorso di riflessione della psicoanalisi in merito alle tossicodipendenze. Senza pretesa di esaustività e ricordando che la letteratura in materia non è esclusivamente correlata alla psicoanalisi ma che, anche altri approcci teorici hanno ampiamente trattato l’argomento, si procederà col fare una rassegna delle principali teorie espresse dagli esponenti del pensiero psicoanalitico in merito alle tossicodipendenze.
Seppure Freud non si è mai specificatamente interessato allo studio delle dipendenze perché le considerava «nevrosi narcisistiche» difficili da trattare, la sua attenzione per le dipendenze appare in numerosi suoi scritti. Una premessa fondamentale è che va considerato l’atteggiamento sociale che all’epoca avevano le doghe; ovvero il fatto che fossero annoverate principalmente tra i farmaci. È fatto notorio che Freud stesso fece uso di cocaina dichiarando nel 1909 di essere stato il primo a scoprirne l’utilizzo (Roazen, 1975).
Per quanto riguarda l’alcolismo, per Freud la patologia è legata alla fissazione alla fase orale. Questo ostruirebbe la possibilità di entrare in una relazione significativa con l’altro, facendo prevalere la relazione con l’oggetto feticcio; ovvero la bottiglia. In aggiunta, l’alcol allentando le inibizioni, instaurerebbe una prevalenza del principio del piacere su principio di realtà.  Infine, Freud individua una connessione tra alcolismo e masturbazione come atto di scarica immediata di tipo quasi allucinatorio (Freud, 1905). Sarà solo successivamente in Contributi alla psicologia della vita amorosa (Freud, 1914) che Freud si avvicinerà all’idea dell’uso della sostanza come sostituto di relazione reale. Parlerà, infatti del concetto di «matrimonio felice» tra alcolista e bottiglia dove quest’ultima sostituisce l’immagine femminile vissuta con profonda ambivalenza (ibidem). Risale invece al 1884 il primo di quattro saggi Sulla Cocaina che l’Autore dedicò a questa sostanza psicoattiva. Egli descrisse in modo elogiativo gli effetti della sostanza sottolineandone gli aspetti euforici che può indurre insieme all’incremento della produttività, l’aumento delle capacità prestazionali nonché curative per il trattamento dell’isteria, dell’ipocondria e la disassuefazione dalla morfina (Freud, 1884). Per concludere, in Disagio della Civiltà (Freud, 1924), Freud affermerà che il bevitore ricerca della bottiglia uno scacciapensieri (Sorgenbrecher) che allontani l’angoscia dovuto alle costrizioni imposte dalla società, un rimedio per la repressione pulsionale subito dall’uomo che vive nelle civiltà.
Inerentemente gli autori post-freudiani Abrahm (Abraham, 1927) considera anch’egli il problema dell’etilismo come un blocco della fase orale. L’alcol farebbe così emergere un’attività sessuale indiscriminata che è sia “normale” che “perversa” provocando così manifestazioni scopofiliache, omosessuali, esibizionistiche che sono state rimosse o sublimate. Tausk (Tausk, 1915), invece, qualificava l’alcol come oggetto omosessuale consumato tra pari appartenenti allo stesso sesso. Ed anche Adler (Adler, 1912)qualifica nell’alcol questa fuga nel mondo parallelo generato dalla sostanza. Infatti, egli attribuisce al tossicomane un senso di inferiorità da rintracciarsi in un’infanzia negativa, difficile o traumatizzante. Le motivazioni che spingono il tossicomane a rappresentarsi in maniera così disfunzionale sarebbero pertanto da ricercarsi nella sfera familiare. Quest’ultima produrrebbe nel figlio due inadeguate rappresentazioni identitarie: il bambino viziato e il bambino maltrattato. Il primo avrebbe un atteggiamento di totale dipendenza dalla madre che vizia le richieste del bambino, che poi non è più in grado di farne a meno. In questo caso, il tossicomane, sostituisce la madre con la sostanza, ma tende ad attribuire la colpa della propria inadeguatezza alla realtà esterna, non altrettanto gratificante. Nel caso del bambino maltrattato, invece, questo ha vissuto esperienze di carenza affettiva che hanno alimentato una profonda sensazione di inferiorità e prodotto un ulteriore senso di inadeguatezza.
Simmel (Simmel, 1929) avanza l’ipotesi di un meccanismo difensivo nell’utilizzo della sostanza. Il dolore sperimentato a livello somatico nella fase di astinenza, sarebbe inconsciamente associato all’identificazione con un oggetto interno portatore di tristezza e morte, mentre l’uso della sostanza favorirebbe l’innalzamento di difese di tipo maniacale.
Si deve a Rado (Rado, 1926), invece, l’ipotesi di un meccanismo dinamico alla base della tossicodipendenza che è ravvisabile con il narcisismo e gli stati maniaco-depressivi. La sostanza condurrebbe ad una temporanea condizione di sollievo inducendo un sentimento magico e onnipotente di controllo sullo stato d’animo depressivo e sul mondo, ponendo inoltre, particolare attenzione sul carattere libidico, tanto da far giungere all’autore la definizione di Orgasmo farmacogeno l’assunzione della sostanza. Anche per Rado sarebbe possibile ricondurre questo tipo di sensazione ad elementi regressivi di carattere orale.
Passando a Glover (Glover, 1949), secondo questo autore è possibile ricondurre le condotte tossicomaniche a tre organizzazioni di personalità: depressivo-maniacale, paranoide, ossessiva. La sostanza chimica simbolizzerebbe un oggetto ideale, magico e onnipotente usato per controllare i rapporti interni gravemente disturbati. È proprio a Glover, infatti, che dobbiamo l’intuizione che in realtà la sostanza deve curare una profonda sofferenza interiore del tossicodipendente.
È più sul versante sessuale è invece l’interpretazione di Lacan (Lacan, 1975) che nel 1975 sostiene che la sostanza consente di esprimere il piacere sessuale senza ricorrere all’oggetto sessuale reale. Offrendo una facile risposta alla difficile questione del rapporto con il fallo, la sostanza, consentirebbe l’ottenimento del piacere sessuale senza necessità di affrontare i limiti legati alla relazione con l’altro e la fatica di dover essere e fallicamente efficienti.  Pertanto, «fare l’amore con la bottiglia» sarebbe meglio che farlo con la donna amata, avendo con essa un matrimonio felice e sempre ugualmente vizioso che si ripete all’infinito.
Olivenstein nel testo La Droga o la Vita (Olievenstain, 1984) afferma che nell’uso compulsivo della sostanza sia la ricerca spasmodica dell’impossibilità di soddisfare il bisogno psichico più antico. La sua tesi più nota riguarda infatti il tema dello Specchio Infranto che costituisce per il bambino «un momento di unità rispetto alla precedente esperienza di un corpo parziale e suddiviso, […] la cui mancanza di funzione rispecchiante perpetra lo stato di frammentazione del corpo originario» (ibidem). La vita del tossicodipendente sarebbe pertanto un continuo susseguirsi di queste fratture.
Freda (Freda, 2001), riprendendo il modello di Lacan, afferma che la cosa la sostanza consente un’alternativa alla relazione con l’altro, offrendo una risposta immediata ai bisogni del soggetto peraltro di facile soddisfazione. Il tema della sessualità torna quindi in primo piano ponendo in luce il difficile rapporto trova sessualità matura e quella genitale a cui il tossicodipendente rinuncerebbe a favore di un più semplice godimento oggettuale derivato dalla sostanza (abusata).

Quanto invece ad una revisione degli approcci più recenti, vediamo nella lettura di Massimo Recalcati (Recalcati, 2002) l’idea che i soggetti dipendenti tendono a voler riempire una profonda esperienza di un vuoto interiore attraverso la sostanza. Il tossicodipendente, quindi, si sente da un lato «troppo pieno» cioè occupato da una presenza di altri troppo invadenti, dall’altro «troppo vuoto» perché questa eccessiva presenza preclude la formazione di una soggettività separata, capace di una dinamica io-altro. Pertanto si potrebbe dire che esiste un vuoto di “altro” perché non è riconosciuto nella sua separatezza.
Anche nell’analisi condotta da Racalbuto (Racalbuto, 2006) troviamo una rappresentazione di alterità tra il soggetto tossicodipendente e il suo ambiente. A tal proposito si parla di «perversione del cambiamento»ovvero uno «spazio drogato» con accento specifico sulla spazialità e la temporalità vissuta. Secondo l’autore la spazialità dell’uomo contemporaneo non consiste in un luogo in cui elaborare il proprio pensiero, le proprie mozioni, in cui costruire una narrazione dei propri vissuti. Al contrario, l’uomo contemporaneo tenderebbe a voler ricevere cure immediate e di subitanea efficacia, non concedendosi uno spazio elaborativo. E in questa infinita frantumazione dell’individuo, il tossicodipendente cerca di trovare «collanti» che lo mantengono compatto e che gli evitino di entrare in contatto con il proprio dolore determinato e alimentato dalla delusione dettata dalla mancanza di una relazione significativa con l’oggetto.

Anche Winnicot (Winnicot, 1971) diede in un importante contributo la sua interpretazione della dipendenza patologica. Questo a suo avviso si declinava in un modello delle relazioni oggettuali e della dia de madre-bambino. La dipendenza sarebbe un tentativo di recuperare il rapporto con la madre, poiché la sostanza offre sensazione di gratificazione e calore date nel passato dal legame con la madre. Pertanto la sostanza fungerebbe da sostituto materno per la gestione delle frustrazioni e delle ansie. Il comportamento del tossicodipendente sarebbe paragonabile a quel bambino che nega il dolore, che si rifiuta di una realtà soddisfacente e piena, che attua difese onnipotenti e cerca di rimanere ancorato a esperienze primarie di soddisfacimento e totale gratificazione.

In riferimento al contributo della Psicologia del Sé vediamo che Khout (Kouth, 1971) ha spiegato la dipendenza attraverso una teoria del deficit in cui, i fallimenti empatici dei genitori nei confronti dei bisogni evolutivi dei bambini ne determinerebbero la frammentazione del Sé. La mancanza di empatia sarebbe collegata al mancato riconoscimento da parte dei genitori di manifestazione di ricerca d’affetto, attenzione e idealizzazione da parte del bambino adeguate al periodo di sviluppo. Il genitore dovrebbe saper corrispondere a questo bisogno, la giusta ammirazione e attenzione, accettando e riconoscendo il comportamento del bambino come un normale processo evolutivo. Il soggetto adulto con questi deficit, non sarebbe in grado di alleviare il dolore generato da specifiche esperienze di abbandono che verrebbero vissute come ulteriori ferite narcisistiche.

A cavallo tra gli autori moderni e quelli contemporanei troviamo Blatt (Blatt, et al., 1984) il quale considera la scelta della sostanza come la scelta di uno specifico oggetto che assolve ad una altrettanto specifica funzione. Questo concetto viene definito preference termine che intende la ripetitività nella scelta di una certa sostanza rispetto ad altre. L’autore sostiene che i fattori che spingono – ad esempio – un eroinomane siano specifici e sottesi a: l’azione di contenimento dell’aggressività attraverso la sostanza; la soddisfazione del bisogno di una relazione simbiotica; l’allontanamento di stati depressivi. Pertanto l’eroinomane cercherebbe nella sostanza una fuga dal senso di colpa, inadeguatezza, l’inutilità e la depressione; «stati che affliggono l’Io a causa di un giudice duro e irreprensibile che è il Super-Io» (ibidem).
Come ultima parte di questa rassegna, senza dubbio non esaustiva, del Pensiero Psicoanalitico in merito alle dipendenze patologiche, si passerà ora ad illustrare brevemente il pensiero degli autori contemporanei. In primis la Tustin (Tustin, 1980) che sviluppa il concetto di “oggetti sensazione”, che non consentono l’uso dell’oggetto transizionale producendo sensazioni fisiche piacevoli che danno al bambino la sensazione di essere un tutt’uno con la madre e di sentirsi protetto dagli urti della realtà esterna. Secondo l’autrice, infatti, il bambino rimane ancorato all’uso degli oggetti-sensazione a causa di un troppo precoce stimolo ambientale, che lo induce a percepirsi come staccato dalla madre, quando ancora psichicamente egli non è pronto ad esperirsi tale. Nel soggetto tossicodipendente sarebbe quindi rimasta una faglia che tutta la vita cercherà di colmare con la sostanza.

Dobbiamo invece a Kanthzian (Khantzian, 1985) la teoria della self-medication, ovvero la tendenza del tossicomane a usare la sostanza con funzione medicamentosa proprio rispetto e a stati affettivi altrimenti ingestibili. Gli affetti da cui secondo l’autore il soggetto tenterebbe di sfuggire sono complessi e con possibile valenza negativa, come ad esempio: l’aggressività, l’ansia, la depressione, la rabbia, la vergogna e la colpa. E sempre secondo l’autore, la sostanza fungerebbe da strumento controllabile che consente di far vivere al soggetto stati che trasformano la sensazione di passività in una posizione di potere accompagnato da emozioni di euforia. L’idea poggia sul fatto che la dipendenza da una sostanza abbia in sé è un paradosso, essendo una «auto-cura» «auto-distruttiva». Il soggetto pertanto lenisce il suo dolore e si prende cura di sé con un comportamento doloroso è pericoloso.
Un ottimo contributo particolarmente importante tra gli autori contemporanei è quello Di Bergeret (Bergeret, 1990) che parla di condizioni di «a-strutturazione psichica» del tossicodipendente. Questo implicherebbe una mancanza di strutturazione dell’Io e del Super-Io nel soggetto, il quale a sua volta produrrebbe nel paziente tossicomane delle defaillance delle regolazioni narcisistiche del comportamento. Il soggetto sarebbe, infatti, totalmente in balia della pulsionalità e di dinamiche che causano e profonda debolezza dell’Io. L’altro diventerebbe, perciò, un oggetto ausiliario da sfruttare o un oggetto idealizzante che rimandi un’immagine idealizzata.