Le sostanze psicotrope hanno da sempre esercitato grande fascino sull’uomo ed in particolar modo sui giovani. La nostra società contemporanea o liquida come il lascito di Zygmund Bauman ci ha ormai insegnato a dire, ha ancor più accentuato la necessità di spingerci a provare emozioni sempre più forti. Emozioni che debbono dirompere in noi per risvegliarci dal torpore della quotidianità. E chi più degli adolescenti interpreta la ricerca delle emozioni forti, del rischio, dell’immolarsi e del distruggere una parte di sé per poter diventare adulti? La competizione per gli adolescenti è divenuta globale. La gestione della frustrazione necessaria al miglioramento di sé si è spostata in pochi anni dalla recinzione del cortile all’infinito spazio del web. Questo ha generato un senso di solitudine e al contempo di ricerca spasmodica di approvazione dell’altro che lasciano sempre più profonde cicatrici nelle menti degli adolescenti. Mentre la Marvel mostra ai ragazzi che anche i supereroi possono essere fragili, rendendoli umani e quindi vulnerabili, celebrando sullo schermo l’uccisione di chi non può essere ucciso, gli adolescenti sentono sempre più il bisogno di essere super (eroi) extra ordinari. L’aspetto fisico, i followers, le visualizzazioni, i like sono tutti tentativi di placare quel tormento interiore, declinazione del senso di inadeguatezza. Nascono quindi nuove dipendenze che si aggiungono a quelle classiche, rivisitate in versione 2.0 che spingono gli adolescenti a fare un uso sempre più precoce e crescente di sostanze psicotrope. Vecchie e nuove droghe, mescolate attingendo a nuovi canali di approvvigionamento che fanno dell’azione del drogarsi non più un gesto intimo, privato, soggiogato dal senso di colpa. La sostanza diventa oggetto della cosmesi del Sé, mezzo e non fine per essere ciò che si desiderava apparire. Ecco allora che gli adolescenti restano ammaliati dall’effetto che la sostanza può donargli, come l’animale selvatico che abbagliato dai fari della macchina, rischia di venire investito. La droga è percepita oggi come il prêt-à-porter del Sé. Il modo più veloce ed economico di sentirsi ciò che si è sempre desiderato sentirsi. Di avere la sensazione di non avere sensazioni (negative). Di smettere di negoziare tra chi si è e chi si crede si dovrebbe essere. È proprio in questo modo che sempre più adolescenti restano impigliati nella rete della tossicodipendenza. Incastrati tra bugie e senso di inadeguatezza. Soli. Davanti all’unico nuovo Dio capriccioso e volubile in grado di giudicare l’operato di tutti: lo smartphone. Gli adolescenti contemporanei sono figli di genitori che hanno perso il cardine fondante del loro stesso epiteto, sono sempre più il fan club dei loro figli: amici, “confidenti”, complici, ma senza dubbio non più educatori. Venerati tutti come enfant prodige da piccolissimi, per poi velocemente venir declassati alla categoria adulti nella loro adolescenza. Così, senza guida e senza le risorse emotive, gli adolescenti si gettano nel loro compito evoluzionistico più provante, ovvero, l’esecuzione del funerale (simbolico) dei loro genitori, necessario per completare il rito di passaggio necessario all’edificazione dell’identità nella società e la completa maturazione del Sé.
In tutta questa complicata matassa da sbrogliare in cui sono intrecciati i fili del futuro di molti adolescenti, il compito di chi deve aiutarli a superare una dipendenza si trasforma in un paziente lavoro di tessitura fatto di crisi di identità, crisi di appartenenza, insicurezze, successi, paure, ostentata sicurezza, rabbia, ma anche, risate, divertimento e noia, felicità e tristezza, ma anche malinconia e dispiacere, pianti, ma anche grande appagamento. Sono gli ossimori dell’adolescenza che vanno valorizzati e non annichiliti. Per rendere i supereroi fragili di oggi, il futuro di domani.

Questo, come scelta dirimente rispetto ad una personale concezione di tossicodipendenza nel modo adolescente. Situazione liquida che ben poco può essere soggiogabile ai diktat metodologici che la psicologia contemporanea cerca di imporre più per rassicurare sé stessa dalle sue ataviche paure imposte dei pregiudizi sociali, che per reale necessità terapeutica. Finalità elicitata per mostrare quanto ampia sia la (dis)percezione del fenomeno. Di come venire a sapere sia da sempre la miglior freccia nella faretra della prevenzione. E provare così a tutelare una realtà spesso mistificata da cliché e media, strumentalizzata e a volte usata come baluardo per torbidi fini.